Un viaggio, ricco di salite e discese, di momenti di stridente fastidio, ma anche di riflessione. Un tema ampio e quindi una mostra ricca di suggestioni, di contraddizioni e sfaccettature, di richiami a un passato più o meno mitico e di slanci verso un futuro incerto, certamente un contemporaneo presente.
Come un alieno, appena arrivato sulla Terra, ho scelto di avvicinarmi a questo primordiale sentimento umano che da sempre ci caratterizza, ho scelto di osservarlo, come se non ne sapessi nulla, perchè forse davvero nulla potrei dire di saperne… Ho scelto di lasciarmi guidare con umiltà dalle interpretazioni più o meno intimistiche, più o meno sarcastiche, talvolta di denuncia, o di lode, dei 18 artisti contemporanei che il curatore Danilo Eccher ha scelto per raccontare l’Amore: Vanessa Beecroft, Francesco Clemente, Nathalie Djurberg e Hans Berg, Tracey Emin, Gilbert & George, Robert Indiana, Ragnar Kjartansson, Yayoi Kusama, Mark Manders, Ursula Mayer, Tracey Moffatt, Marc Quinn, Joana Vasconcelos, Francesco Vezzoli, Andy Warhol, Tom Wesselmann.
Appena varcato l’ingresso Love et Amor, mi accolgono a caratteri cubitali ricordandomi l’universalità e l’astoricità di questo sentimento. E’ un’opera di Robert Indiana che risale agli Anni 60 ed esprime perfettamente il taglio della mostra, sia per quanto riguarda la scelta stilistica pop che per quanto concerne la tematica concettuale.
La sempre più forte partecipazione attiva dell’osservatore nelle mostre di arte contemporanea mi ha appena permesso di scegliere tra 5 audioguide diverse: due donne, una probabilmente più giovane e frizzante e una con più esperienza e sensualità, due uomini, anche in questo caso uno giovane e uno definito “senza età”, e poi… due cani! Per chi, sempre più frequentemente, sceglie di delegare ai quadrupedi l’affettività partecipe che un rapporto con bipedi umanoidi rende particolarmente difficile.
Mi lascio convincere da David, l’uomo senza età. Immagino una guida colta, poco rompiscatole, insomma un uomo che quello che voleva dalla vita lo ha avuto e che non deve stare ad aprire la coda da pavone per farsi ammirare.
Mi saluta e inizia a canticchiare e a parlarmi con una voce melensa e insopportabile. Mi riempie di assurde frasi del tipo “I’ll be your king and you’ll be my queen…” con una voce che sì, mi fa venire i brividi… ma di disgusto! Beh, David ha quanto meno l’utilità di ricordarmi perché alcuni miei ex sono diventati tali!
Ho il desiderio di tornare al botteghino e lasciare David! Sì, forse sarei disposta anche a prendere i cani! Ma decido di andare avanti nell’esperienza e di lasciarmi guidare in questo viaggio da questa insopportabile voce sdolcinata… la prenderò con ironia!
Così dopo l’installazione di Robert Indiana che titola e contestualizza l’esposizione mi inoltro con David nelle orecchie lungo il percorso della mostra. Mi ritrovo tra le immagini volutamente stereotipate e commerciali che raccontano il business dell’amore, nuvole di fumo e corpi al sole, nelle opere di Tom Wesselmann. Per scoprire l’amore partiamo dalla superficie, da tutto ciò che intorno ad esso è costruito, dai giochi d’immagine e di potere, dalle dinamiche di genere, dai simboli di erotismo e sensualità.
Inevitabilmente mi assale un interrogativo di genere: Donne, tante donne, sono loro, con i loro corpi a rappresentare gli oggetti del piacere per poi trasformarsi inevitabilmente in esseri mutilati come sottolinea con forza l’opera di Mark Manders. Crude sculture con corpi sofferenti circondate, non a caso, dall’intima opera grafica di Tracey Emin, My Forgotten Heart, testi in corsivo illuminati al neon che, come in un diario, aprono uno squarcio verso l’intima interiorità del sentimento e ci ricordano l’essenza dietro alla superficie.
E’ davanti a questa essenza che non si cura dei difetti, davanti all’amore nonostante tutto, che ci pone l’opera Kiss di Marc Quinn, il bacio tra una coppia visibilmente disabile, che sa andare oltre le apparenze e semplicemente e sinceramente amare.
Dopo gradini, cuori, amo e odio, voglio e non voglio, nomi, nomi, nomi… approdo alla tv con il video di Tracey Moffatt Love. E allora sorrido davanti a un’infinità di splendidi primi baci e imprevedibili piogge di ceffoni. Anche questo è l’amore e il cinema lo racconta da quando è nato. E noi al cinema guardiamo e a volte sogniamo e vorremmo essere in quel momento, e vorremmo poter vivere anche noi l’incanto della poesia di alcuni attimi. E sempre davanti al grande schermo altrettante volte siamo ben felici di starcene comodi a mangiare popcorn mentre a soffrire è qualcun altro. Così è l’amore che viene e va gioia e dolore sempre ci dà… e se non rischi un ceffone in faccia probabilmente è perché ti sei accontentato di un pacchetto di popcorn!
Ma l’Amore è anche la seduzione di un sogno impossibile, l’anelito verso qualcosa di sfuggente, perso, passato. Così nell’opera di Francesco Vezzoli ci troviamo catapultati nell’impossibile e pur vivo dialogo tra un passato classico, fatto di bellezze scultoree e armonia e un presente che invano tenta di raggiungerlo, di sfiorarlo, di emularlo.
Il viaggio è ancora lungo e le suggestioni tante, così mi lascio incantare dagli immensi fiori dell’istallazione The Cleaning di Nathalie Djurberg e Hans Berg, entrando come una piccola Alice in un immenso e grottesco Mondo delle Meraviglie. I fiori lentamente si muovono ipnotici, senza andare da nessuna parte, portandomi con il loro meccanico ruotare dentro a quelle storie fatte di errori sempre uguali, di costanti e vischiose ripetizioni.
E così lentamente, ma con tutt’altro fascino si muove ruotando su se stesso anche il grande cuore di posate di plastica rosse di Joana Vasconcelos accompagnato dalla voce di Amalia Rodriguez, portandoci verso un’altro incanto, quello del fado e lasciando sul muro affascinanti ombre, impossibili da fermare e da catturare, immateriali eppure forse più affascinanti del cuore stesso. Sono le nostre infinite e mobili proiezioni, che poco hanno a che fare con la lucida e plastica presenza di una materia seducente. A cosa si ridurrebbe la sensualità senza immaginazione!?
L’ultima tappa del mio viaggio è la forte e coinvolgente installazione di Yayoi Kusama con la sua Infinity Mirrored Room, All the Ethernal Love I have for Pumpkins. E allora di nuovo mi ritrovo magicamente piccola, come in mezzo ai fiori di The Cleaning… forse ho assaggiato il lato del fungo che fa rimpicciolire mi ricorda un immaginario Brucaliffo… Intorno a me infinite e grandi zucche, si ripetono uguali e diverse tra loro e io quasi mi perdo. Più che zucche mi fanno pensare ai cavoli, sì, quelli negli orti dove sotto ci si trovano i bambini. E io sto là, in mezzo a queste zucche-cavoli, prodotto di un amore che fino’ora ho tentato di comprendere.
Così ognuno in quei pochi minuti di solitudine nella Infinity Room si ritrova improvvisamente bambino in mezzo all’orto, frutto di un amore forse inconsapevole, frutto del destino, del caso o della forte volontà di qualcuno, in ogni modo, frutto. E senza che noi possiamo chiederlo o desiderarlo, la porta della Infinity Room si apre, il tempo è scaduto, dobbiamo lasciare l’orto e entrare nel mondo finito, avanti il prossimo!
Prendo di nuovo contatto con quell’alieno immaginario al quale la mostra ha tentato di spiegare cosa sia l’Amore qui sulla Terra. Lo sento perplesso… Come siamo complessi noi esseri umani e cosa siamo riusciti a fare di un semplice sentimento! Istinto e cervello, gioia e dolore, accettazione, rivalità, seduzione, e infine creatività e morte… Forse c’è davvero troppo dietro la parola Amore e questa sola mostra potrebbe già essere letta e raccontata in infiniti altri modi. A ognuno il suo! Ancora pochi giorni per vederla…
Scrivi un commento