Non i supereroi con i quali ci confrontiamo in un’inevitabile costante smacco da diversi decenni, oggi scelgo gli Eroi. Se alcune mostre ci attirano perchè amiamo un determinato artista, o siamo affascinati da una location, altre le scegliamo così, per un titolo, proprio come succede con i film al cinema o le montagne di libri da Feltrnelli.
Passata la biglietteria mi lascio avvolgere dalla bianca e solitaria freddezza delle grandi stanze del Palazzo delle Esposizioni: sei sale dedicate alla Serie degli Eroi, o Nuovi Tipisulla quale Georg Basiletz lavorò tra il 1965 e il 66 e l’ultima sala oltre la Rotonda con i Remix degli anni 2007 e 2008. Una frattura tra due umanità maschili: la prima appena emersa dalla Seconda Guerra Mondiale, piena di incertezze e dubbi, eroica senza volerlo e senza conoscerne il motivo. La seconda, quella di Remix, un’umanità frammentata, sopravvissuta alle opere dei “fratturati”, pronta ad affacciarsi al nuovo Millennio carica di antiche incertezze, ma forse proprio da queste anche alleggerita.
L’allestimento di Max Hollein e Daniela Lancioni è freddo e poco accogliente. La distanza tra le opere e l’osservatore è netta: una linea per terra allarmata non permette di avvicinarsi nemmeno per osservare il tratto. Niente di meno contemporaneo. Niente di più estraniante. Ma forse proprio per questo il senso stridente di contraddizione emerge con forza. E’ proprio il senso di separazione di incongruenza tra significante e significato e di rottura ad accompagnarmi per tutta la mostra. Un prima (con gli Eroi) e un dopo (nel Remix), un est e un ovest, un eroe antieroe, un contemporaneo incastrato in un allestimento classico. Abituata all’arte partecipativa, dove si chiede all’osservatore di fotografare, twittare, postare e condividere sui social, mi trovo basita e anche infastidita dal divieto di fotografare.
Le grandi tele degli Eroi sono precedute da alcuni testi di Baselitz e dalle foto della costruzione del Muro di Berlino. Ho la sensazione di mettere i piedi in un passato che ho appena potuto percepire.
Nato nel 1938 nella Germania Orientale e trasferitosi a Berlino Est nel 1957 Baselitz ha vissuto oscillando tra Germania Est e Ovest e vivendo in prima persona, come molti allora, il divario fisico, mentale e sociale rappresentato dal Muro di Berlino.
Sono stato messo al mondo in un ordine
distrutto,
in un popolo distrutto, in una società distrutta.
E non volevo introdurre un nuovo ordine.
Avevo visto fin troppi cosiddetti ordini.
Sono questi gli eroi che ci presenta Baselitz, uomini divisi, nati in un mondo distrutto, sguardi vuoti di ideali svuotati. Le bandiere ancora ci sono, ma le mani sembra non possano sorreggerle. Questo il mondo che ci ha lasciato in eredità la Seconda Guerra Mondiale, questo il nonsense di ideali creato dalla Guerra Fredda.
Guardo questi uomini nelle loro divise logorate, con gli scarponi abbandonati per terra e i piedi nudi, i palmi delle mani aperti e vuoti, come a mostrare qualcosa che è andato e non si può più trattenere. Sento la fragilità del loro eroismo, imposto con una parola oggi ancora più vuota di allora.
E così capisco perché i decenni successivi hanno avuto il bisogno di creare i Supereroi, gli esseri dotati di poteri non umani, imbattibili salvatori dell’umanità.
E il Muro di Berlino che ha simboleggiato la frattura tra due mondi durante la Guerra Fredda, che ha diviso l’umanità catalogandola in base a ideali che si andavano sgretolando, è sicuramente nell’opera di Baselitz un segno netto, una frattura ricorrente.
Nell’avvicinarmi ai “fratturati”, così sono chiamate le opere di questa Serie, sento inevitabilmente la frattura. Uomini divisi, gli stessi eroi che un tempo tenevano una bandiera, e pur con sguardo vuoto si identificavano in un ideale, ora sono fatti a pezzi. Bastano pochi tratti geometrici e le pennellate curve tipiche di Baselitz vengono interrotte suggerendo un puzzle umano dove l’interezza è data solo dall’apparenza della superficie.
Sento come in me viva la molteplicità, spesso contraddittoria, ma sicuramente libera, quando consapevole. Nell’interezza di ogni essere umano sono contenuti infiniti muri, momenti di incomunicabile gioco di ruoli, pirandellianamente tutti assolutamente sinceri e falsi al tempo stesso.
E’ proprio l’onestà di questi tagli che mi sembra possa riscattare quegli sguardi vuoti e quegli scarponi abbandonati. Perchè se la strada da percorrere non è più chiara e si apre in un groviglio di verità alterate, allora frammentarsi per ricomporsi è forse l’immagine che meglio può esprimere la contemporaneità della nostra esistenza.
E come in un processo catartico, il taglio porta alla liberazione da quelle immagini e al salto verso tele più grandi, meno sofferte, ricche di vuoti.
Provvidenziale arriva l’arte a liberarmi dal senso di angoscia di questi eroi derubati d’ideali.
Sono nell’ultima sala oltre la Rotonda e approdo nel XXI secolo: mi sento a casa. Le opere esposte sono della Serie Remix e appartengono agli anni 2007 e 2008, ora la mano dell’artista è nel nuovo millennio, la pennellata è veloce e i vuoti si caricano.
L’arte e l’artista mi accolgono e resto ferma a guardare gli schizzi di vernice rossa e il viso soddisfatto di un possibile Jackson Pollock a lavoro.
Improvvisamente, davanti un’unica tela che mi sovrasta, la sofferenza degli antieroi eroizzati, sembra trovare riscatto e nel disagio del XXI secolo, nelle certezze delle incertezze, nei controsensi ricchi di significati e spessore, trovo pace e mi riconosco come essere contemporaneo.
Le mani ora sono sporche di vernice, non trovo più quella netta linea della vita così simile a un segno d’infinito che portano come un marchio per il mattatoio gli Eroi dipinti negli anni ’60.
Ora i segni sono decifrabili dal mio vocabolario e non hanno la pretesa di nascondere codici comprensibili a pochi. Se il disagio c’è, lo so riconoscere in me stessa, so da dove viene e non mi aspetto nulla. Sono nell’immediatezza di una tela che si sta riempiendo di colore, nel gesto istintivo di un action painter, nel qui e ora.
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