“Fa conto di avere tutte le cose del mondo” dice il poeta persiano Omar Khayyam rivolgendosi al proprio cuore e Mostafa Rahimi Vishteh sceglie di trascrivere questa quartina su una sua opera. L’abbondanza di possibilità racchiusa in “tutte le cose del mondo” vive nei bagliori della sua arte che, giocando con la luce, crea infinite percezioni che danno adito ad altrettante narrazioni mostrandoci come la ricchezza risieda nel pluralismo.
Un’arte caleidoscopica, ricca di riflessi e rimandi, di onde cromatiche che viaggiano su percorsi che poi si intersecano creando nuove sfumature. Quella di Mostafa Rahimi Vishteh è una ricerca artistica ed espressiva che muovendosi da precise conoscenze tecniche legate al suo percorso di architetto e progettista coniuga le suggestioni dei suoi anni con un gusto orientale che affonda le radici nel mondo persiano. Niente di tutto ciò che si vede nel lavoro dell’artista è ascrivibile a un determinato contesto geografico o a precise scelte stilistiche. Il percorso del Rahimi, come la luce in un caleidoscopio, riflette frammenti diversi che convergendo creano una cifra stilistica personale, ricca di rimandi culturali.
Materia d’elezione è il vetro con la sua capacità di raccogliere e restituire la luce. Si tratta di vetri opachi, smerigliati, lucidi, trasparenti o colorati che l’artista lavora raccogliendone frammenti, sbriciolandoli in polveri e fondendoli. Sono frammenti che raccontano parti di un insieme un tempo omogeneo, e forse proprio per questo più statico e ovvio. Il Rahimi lavora questa materia facendole perdere la sua purezza iniziale per trasformarla, attraverso l’incontro con altre superfici e altri cromatismi in qualcosa che possa andare oltre la staticità iniziale e spingersi verso nuove narrazioni, plurali e in divenire. E in questi vetri, con la loro capacità di dar forma a nuovi corpi proprio grazie l’armonizzazione di frammenti diversi, possiamo vedere l’immagine dell’artista stesso che, nato e cresciuto a Teheran, ha poi studiato architettura a Firenze e oggi lavora come mastro vetraio a Latina. Un uomo che racchiude in sé sguardi plurimi e che trova identità nell’incontro tra culture diverse dove l’una perde definizione per fondersi nell’altra, esattamente come avviene con le barre di vetro.
Svelare il mistero della nostra origine, il perché della vita sulla Terra, il senso ultimo del cammino dell’essere umano, sono gli interrogativi irrisolti verso i quali l’artista tende. Un domandarsi che è destinato a non trovare risposte certe, ma che non per questo cessa di muovere la mente umana. Quello dell’artista è un movimento intellettuale e spirituale, mai vincolato a dogmi religiosi, ma libero. Questo anelito prende forma nelle opere di Mostafa in figure geometriche che si slanciano sinuose verso l’alto, verso un non luogo che si trova nell’oltre, oltre l’opera, oltre il percepibile, oltre lo scibile. Qui cessa il lavoro della mente razionale ed interviene l’intuito dell’artista che senza usare parole esprime attraverso le forme. E alla forma il Rahimi aggiunge la luce, simbolo di conoscenza.
Eppure i colori, le scanalature nel materiale, le opacità, mostrano il velo del dubbio, l’incastro del gioco della mente umana che si frappone tra il reale e una sua conoscenza immediata e istintiva. L’artista cerca quindi un varco, una strada che permetta alla mente di liberarsi e spingersi verso i territori dell’oltre.
Mostafa si ferma davanti alla bellezza e invita alla contemplazione. Solo in questo modo il vagare umano alla ricerca di un senso può placarsi, e la mente distendersi. La bellezza diventa dunque veicolo che ci permette di attraversare il varco verso l’oltre e porta la mente dal finito all’infinito, dal mondo delle percezioni fisiche a quello delle idee e delle astrazioni. Eppure nella nostra esperienza terrena nulla è infinito, e la materia del vetro racconta, con la sua fragilità, la caducità di ogni bellezza. Questa impermanenza del piacere dei sensi, che dona solo per un attimo la quiete mentale nell’appagamento, porta l’artista a una continua ricerca di nuovi equilibri, di nuove miscele di finito e infinito, di nuove forme del bello, nella consapevolezza che, come recita l’ultimo verso della quartina di Khayyam trascritta dal Rahimi “al sorger dell’alba svanita”.
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